Al cospetto di Ulisse Penelope è impassibile; “non riesco né a dirgli parola né a interrogarlo né a guardarlo in viso” (Odissea, XXIII, 105-107), così dice a Telemaco che le rimprovera un “cuore più duro del sasso” (XXIII, 103) per aggiungere poi che c’è un modo per fugare ogni dubbio: “abbiamo per noi dei segni segreti, che noi sappiamo e non gli altri” (XXIII, 109- 110).
Capiamo così che quello che muove Penelope è anche prudenza: Ulisse, che ora l’accusa di avere “un cuore di ferro” (XXIII, 172) le ha appena mentito sulla sua identità, dicendole di essere un principe cretese (XIX, 181-184); vorrebbe essere accolto come il marito atteso da sempre, senza titubanza alcuna, ma la donna vuole provarlo, vuol essere sicura che sia lui e che conosca i “semata”, i segni, e riesce a farlo indignare, lui sempre cosi controllato, “i suoi occhi erano fermi come il corno e l’acciaio, immoti tra le palpebre” (XIX, 211-212).
Allora Penelope finge che il talamo nunziale possa essere trasportato nella sala, cosa del tutto impossibile perché era stato intagliato nel tronco di un ulivo attorno al quale fu poi costruita la stanza: e questo lo sanno solo loro due. Nella reazione adirata di Odisseo, al solo pensiero che qualcuno possa avere manomesso il letto, Penelope riconosce il marito e gli si getta tra le braccia.
Ma nella decorazione della teca, ai piedi di Ulisse e volto verso di lui, è rappresentato qualcuno che lo aveva già riconosciuto, senza bisogno di parole, né di prove, né di inganni: è Argo, il cane fedele, che appare nel poema solo per riconoscere il suo padrone e morire subito dopo, pochi versi per un amore senza compromessi (XVII, 290-327).