Siamo nel nono cerchio, nell’inferno più profondo, dove stretti nella morsa delle acque gelate del fiume Cocito i traditori della patria scontano per sempre la loro colpa. Una scena attira l’attenzione di Dante: un dannato ne sovrasta un altro azzannandogli la nuca. Si tratta di due concittadini: il conte Ugolino della Gherardesca, capo dei ghibellini di Pisa, e il guelfo Ruggieri degli Ubaldini, arcivesco della città, le cui identità saranno svelate, con magistrale suspence, solo nel più noto canto XXXIII. Il conte Ugolino vendica così per l’eternità la straziante morte per fame inflitta da Ruggieri non tanto a lui stesso, quanto ai quattro giovanissimi figli e nipoti rinchiusi con lui nella Torre dei Gualandi. Per questo efferato fatto di cronaca, emblematico esempio delle guerre intestine dell’Italia comunale, Dante trova il termine di paragone più calzante nella vicenda mitica di Tideo e Melanippo, tebani entrambi, ma nemici sotto le mura della città contesa tra i due fratelli, Eteocle e Polinice. Egli riprende il racconto dal poeta latino Stazio (I sec. d. C.) con Tideo che, colpito a morte da Melanippo, lo uccide a sua volta e ne addenta con ferocia il cranio (Tebaide, VIII, vv. 751-761).
Nell’altorilievo di Pyrgi, datato alla prima metà del V sec. a. C., l’artista etrusco nel rappresentare l’episodio tratto dal mito dei Sette contro Tebe non tralascia le divinità: sulla destra Atena, disgustata dal comportamento del suo protetto Tideo, gli nega il filtro dell’immortalità chiuso nell’ampolla e accanto a lei Zeus si appresta a fulminare Capaneo che ha osato paragonarsi a lui (ma questa è un’altra storia su cui torneremo…). E come nella raffigurazione di questi atti di superbia (hýbris) punita si cela forse un monito contro la tirannide, sotto la quale nel VI secolo era caduta la città di Caere, così nello stesso mito anche Dante, a distanza di secoli, troverà una chiave interpretativa per i drammatici conflitti del suo tempo.
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